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Eugene Onegin, La Scala, January 2006
Olga Guriakova & Giuseppe Sabbatini
Eugene Onegin, La Scala, January 2006


Oneghin, storia d'anime senza troppa passione, La Stampa, 14 January 2006
Non appassiona l'«Onegin» di Jurowski, Il Giornale, 15 January 2006
Onegin ritrova l´antico fascino, La Repubblica, 16 January 2006
Ritorna l'"Eugenio Onieghin" di Ciaikovski alla Scala, Il Gazzettino, 12 January 2006
Per l' Eugenio Onegin di Vick il fascino della normalità, Il Resto del Carlino, 12 January 2006
«Onegin» emoziona alla Scala con giovani da applauso, La Provincia, 13 January 2006
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Oneghin, storia d'anime senza troppa passione
Giorgio Pestelli, La Stampa, 14 January 2006

Questo «Eugenio Oneghin» di Ciaikovskij, ritornato alla Scala con soddisfazione di tutti dopo venti anni di assenza (possibile?), non si distingue per trovate spettacolose o colpi di testa, ma al contrario per l'armoniosità dell'insieme, la delicata finezza, l'accento affettuoso sulla vita interiore di personaggi dove tutto s'intreccia e si sovrappone; il direttore Vladimir Jurowski, ma sopra tutto il regista Graham Vick, sciolgono felicemente il primo problema dell'allestimento di quest'opera, quello di una scena maiuscola (la scena della lettera che Tatiana scrive a Eugenio per dichiarargli il suo amore), trattata con inaudita profondità di particolari, e il resto toccato con mano gradualmente leggera; anomalia che non è segno di debolezza, come era sembrato nella prima circolazione dell'opera, ma di una intuizione teatrale straordinariamente moderna: svincolato dalle tradizionali diatribe con i librettisti come dalla globalità wagneriana, nel 1877 Ciaikovskij con grande spregiudicatezza si prepara un testo che prende alla lettera intere strofe dell'incantevole poema di Puskin, altre ne riassume, altre ne inventa, in modo da far scorrere nella rappresentazione tempi diversi: la pigra vita di campagna, i canti dei contadini, gli affondi sentimentali, i balli e le feste, la morte, la tardiva rimonta di Eugenio, nel finale a precipizio, verso una Tatiana ormai irraggiungibile.

Tale concentrazione sulla storia di anime è agevolata dalla spartana scenografia di Richard Hudson, di una economia fin troppo ascetica (l'allestimento infatti proviene dal Festival di Glyndebourne), ma è sopra tutto convalidata dall'eccellenza della compagnia vocale per stile e fisico del ruolo: Olga Guriakova e Nina Surguladze sembrano saltate fuori da miniature dell'Ottocento e incarnano le sorelle Larin con squisita verità di contorni; così la coppia maschile, Ludovic Tézier (Eugenio) e il nostro Giuseppe Sabbatini (Lenskij), il quale, va detto subito, canta la famosa aria prima del duello in modo magistrale, accolta da un trionfo di applausi: senza esagerazioni sentimentali, ma tutta impregnata di una morte che è già presente nell'infinita malinconia di quegli accenti.
Eugenio è personaggio molto difficile, in Puskin reticente, ironico, cosa che va poco d'accordo con la musica effusiva di Ciaikovskij (che infatti s'identifica con Tatiana): ma il Tézier riesce abilmente a darne un ritratto forte e incisivo, da tenere a modello per compostezza anche quando alla fine precipita nel melodramma; affascinante, nella sua freschezza di slanci, impazienze e sconforti, la Tatiana della Guriakova, voce di non grande volume ma finissima e ricca di ogni sfumatura; dopo la notte insonne, con gesto liberatorio, si rovescia in testa una catinella d'acqua, ma la vera doccia fredda viene subito dopo quando Eugenio la rifiuta, invitandola per di più a maggiore prudenza con il sesso forte; altro grande momento di verità psicologica, strano soltanto che Vick faccia restare Eugenio seduto con lei in piedi, senza poi riaccompagnarla in casa, come la «politesse» del grande scettico imponeva.

Ma sono piccole cose in una regìa molto buona, della quale ci piace ricordare ancora il rigore classico con cui è realizzata la scena del duello sciagurato; Jurowski, s'è già accennato, non ama il Ciaikovskij scapigliato e fremente e fa bene, ma qualche pennellata di passione in più, fra tante mezze tinte, non ci starebbe male per dare più mordente al primo atto.

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Non appassiona l'«Onegin» di Jurowski
Piera Anna Franini, Il Giornale, 15 January 2006

L'impianto scenografico è semplicissimo, cartesiano, armonicamente geometrico, di superiore eleganza. Ha i colori dell'avorio, in rimando all'eleganza artefatta di Onegin e al candore di Tat'jana. È minimal: bastano due sedie che si fronteggiano lontane per tradurre gli incontri mancati dei due innamorati (mai in contemporanea) o un gioco di porte e di poltrone per ambientare il salone delle feste in casa Larin. La sequenza delle scene è scandita da un sipario di tulle anch'esso color avorio, vaporoso. Per effetto del fermo immagine capita che le figure si stampino sul fondale, stilizzate, ridotte a eleganti silhouette. Un minimalismo però caldo, emotivo, pensato per tradurre l'intimità del dramma.

Che ha nome Evgenij Onegin: scene liriche in tre atti e sette quadri di Cajkovskij, fino al 27 gennaio al teatro la Scala. L'allestimento è importato dal Glyndebourne Festival anno 1994, regia di Graham Vick, scene e costumi di Richard Hudson e coreografie di Ron Howell. Sul podio il lanciatissimo Vladimir Jurowski, giovane un tempo spesso a Milano alla testa dell'Orchestra Verdi (che per prima lo introdusse in città) e al suo debutto scaligero. Un direttore vincente là dove il dramma si fa rovente: la febbre dell'inquietudine sembra trapassare gli archi e il suono sembra liquefarsi. La tavolozza timbrica e dinamica che Jurowski ricava è ricca. Così come è lunga la lista di belle idee e di buoni propositi di questo direttore di gran temperamento e istinto musicale. Ma spesso manca la quadratura del tempo e vien meno l'amalgama, con palcoscenico e buca d'orchestra che conoscono momenti di disorientamento. Si ha l'impressione di un lavoro potenzialmente riuscito, ma non ancora del tutto metabolizzato.

Nel cast dei cantanti spicca il tenore Giuseppe Sabbatini con un Lenskij tutto sulla parola, notevole là dove il canto è a fior di labbro, di bell'intelligenza musicale, il fraseggio è ricco di sfumature: da manuale la scena del duello. Espressiva, nonostante i mezzi vocali di assoluta normalità, la Tat'jana di Olga Gurakova. Vezzosa, del resto come si conviene al personaggio, la Olga di Nino Surguladze. Riuscito l'Onegin di Ludovic Tézier. Compatto il coro di Bruno Casoni.

Pubblico convinto, ma dall'entusiasmo contenuto.

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Onegin ritrova l´antico fascino
Michelangelo Zurletti, La Repubblica, 16 January 2006

Da Glyndebourne a Milano, ossia dal piccolo al grande, l´allestimento del capolavoro di Ciajkowskij Evgenij Onegin che Graham Vick aveva pensato nel 1994 avrà subito sicuramente molti ritocchi e adattamenti scenici. Non ha però l´aria di un aggiustamento, sembra nato per La Scala.

La spogliazione di ogni orpello era stata voluta da Vick (e dallo scenografo-costumista Richard Hudson) per mettere in rilievo il tormentato rapporto tra i protagonisti, ma c´era il rischio che negli ampi spazi scaligeri lo spettacolo diventasse quasi misero. Invece funziona e quel continuo scorrere di tendaggi acquista una funzione drammaturgica precisa, declinabile con l´aspetto pubblico o privato delle situazioni. E quelle danze (di Ron Howell) realizzate con pochi ballerini sono finalmente accettabili: basta con le coppie anoressiche e via con le taglie abbondanti, come in ogni campagna. Sono in ogni caso ben differenziati i balli popolari di casa Larin con quelli del salotto aristocratico del terzo atto. Diretto alla brava da Vladimir Jurowski, che ha molta sensibilità per le situazioni drammatiche ma pochissima per il fraseggio, l´opera bellissima ha avuto una degna compagnia.

In primo piano mettiamo Giuseppe Sabbatini, un Lenskij di grande fascino vocale e Olga Guriakova, tenera ma anche molto determinata nel ruolo di Tat´jana. Ludovic Tézier è un buon Onegin, anche se sempre più stentoreo del necessario e scenicamente del genere sequoia. Nino Surguladze, Olga e Alexandrina Milcheva, Lariana, li affiancano benissimo. Meno bene Sergej Aleksashaki nel ruolo di Gremin, per via di un´intonazione molto personale.

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Ritorna l'"Eugenio Onieghin" di Ciaikovski alla Scala
Mario Messinis, Il Gazzettino, 12 January 2006

Ritorna l'"Eugenio Onieghin" di Ciaikovski alla Scala, l'opera avvolta in un manto elegiaco che accoglie nelle delicate emozioni soggettive la sublimata e ironica classicità dell'omonimo "Romanzo in versi" di Pushkin. Queste "Scene liriche" raccontano la storia di una passione adolescenziale di Tatiana per il cinico Onieghin, che da prima la rifiuta e solo tardivamente scopre l'amore, vissuto però dalla donna nel segno della rinuncia.

L'opera vive di trepidazioni leggere, di confidenze e ritrosie, di vertigini angosciose: la giovinezza come illusione, il sogno negato dalla realtà, la leggerezza diafana e impalpabile o lo scontro fatale e tragico che si conclude in un duello mortale: Onieghin uccide il suo migliore amico Lenski, che è accecato dalla gelosia. Si intrecciano così affinità e antinomie sentimentali (la sensibile Tatiana e la brillante sorella Olga, fidanzata di Lenski), i quadri domestici (la madre e la balia); le scene folcloriche e danzanti; lo sguardo aristocratico e le insorgenze popolari: la doppia anima russa.

Queste storie levigate e malinconiche, attraversate da momentanee euforie illuminano un mondo che già allude a climi crepuscolari, alle inquietudini del fine secolo. La bella produzione della scala ha un solo limite nella direzione di Wladimir Jurowski, peraltro uno dei maestri più dotati dell'ultima generazione. Ma sfuggono a questo interprete le struggenti emozioni e le sottili ambiguità di Ciaikovski. Certi accenti sono troppo corporei, quasi alla Prokofiev, mentre le oasi liriche mancano di trepidazione, di imprevedibile ansietà.

Superba invece la distribuzione in quasi tutti i ruoli principali. La invenzione sinfonico - vocale di Ciaikovski è singolare: procede prevalentemente per affinità interne, piuttosto che per antitesi: questo carattere è evidente nelle insorgenze tematiche tra loro singolarmente omogenee anche nei subitanei trapassi tra recitativo, arioso, e appello melodico, esattamente percettiti dagli artisti. Olga Guriakova, Tatiana, viene ammirata per la dolcezza confidenziale come per la intensità della parola e del canto. Il protagonista Ludovic Tezier scava il discorso con impressionante lucidità. Giuseppe Sabbatini imprime, al patetico addio alla vita di Lenski, una accorata pienezza. La disinvolta eleganza di Olga è stata resa con garbo da Nina Surgulazde (che è un mezzo soprano, piuttosto che il contralto richiesto dall'autore). Ben caratterizzati i mezzo soprani Milceva e Bogatcheva nei ruoli di Larina e della balia. Il basso Alekshnim ha sostituito all'ultimo momento il titolare nel ruolo di Gremin, il marito cui Tatiana per dovere rimane legata. Un po' enfatico il tenore Voynarosky, monsieur Triqet nella canzone del second'atto.

Graham Vick ripropone uno spettacolo pensato per il festival di Glyndebourne. Al celebre regista interessa la sobria semplificazione e l'acuta analisi psicologica. Gli smarrimenti di Tatiana e la nobile durezza di Onieghin sono disegnati con irreprensibile finezza. Non si vede il duello, reso anche più tragico fuori scena. Vick rivela l'intimismo dell'opera, rinunciando all'effetto teatrale: una versione a suo modo radicale, proprio per il rigore minimalista, favorita dal nudo ed essenziale allestimento di Richard Houdson. Caldo successo.

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Per l' Eugenio Onegin di Vick il fascino della normalità
Lorenzo Arruga, Il Resto del Carlino, 12 January 2006

MILANO  Calma, ragazzi del Mercante in Fiera. Arriva alla Scala una nuova produzione dell'opera russa «Eugenio Onegin» di Caikovskij e gli autori ne parlano come Nuova Sfida a Milano, fra i cimeli dell'opera italiana. «Eugenio Onegin», del 1879, però è in repertorio normale nei teatri italiani. Alla Scala, dal 1900 è stato dato cinque volte, quante «Guglielmo Tell», una meno di «Ernani», ed ha avuto regolarmente successo, come questa volta. Ma qualche pagina di stampa milanese confonde il nuovo sovrintendente Lissner con Padre Pio e coltiva una memoria confusa sul passato. Per esempio, uno dei contrasti del maestro Muti con il sovrintendente Fontana era che a quest'ultimo bastavano pochi abbonamenti elitari; la ripresa d'una campagna e d'una crescita era cominciata sotto la guida di Meli: ma leggendo sembrerebbe che Lissner compia miracoli contro Muti, perché gli abbonati sono aumentati. Si guardi Lissner dai fabbricatori di nemici e dagli adulatori, che quando cambierà il vento svolazzeranno dall'altra parte.

L'opera questa volta è data bene, ma in quella qualità media di spettacolo che non vorremmo diventasse il giro-Scala. L'allestimento viene da Glyndebourne, delizioso teatrino attorno a cui negli intervalli si mangiava sui prati, un tempo; non so adesso, ma sembra strano che quello che là faceva tenerezza diventi la misura del primm teater del mund. Scene sobrie, povere, con finto legno e grande nostalgia di Ikea, ben diversamente geniale, firmate con i costumi da Richard Hudson; gran tendaggio che gira come al Festival della Riloga, con cadute sugli oggetti rimasti a tiro che fan pensare alla famosa vignetta di Novello sull'imbarazzo dell'eroe morto fuori dal sipario. Quando ha poca gente in scena, il regista Graham Vick ha bisogno di inventare registate inutili, trasformare una ragazza in immagine da marionetta russa, bloccare gruppi in quadri plastici; quando ha tanta gente come in una festa realistica o situazioni estreme come un duello che fa sostenere fuori scena, mostra la grande mano dell'uomo di teatro.

Ancora un direttore giovane, Vladimir Jurowski; assai più concreto di Harding, sembra però anche lui attingere alla prudenza tradizionale più che non alla veggenza disperata che permeava per esempio Rostropovic a Firenze o Delmann a Bologna. Speriamo che la raggiunga, perché questa storia, nata da Puskin sulle devastanti illusioni suscitate da un distratto poeta, dove le donne ripetono che «Dio manda l'abitudine in luogo della felicità», nella tragicità struggente del suo canto e in ogni trasparenza dell'orchestra e del coro (soprattutto quando va a tempo), può sprigionare emozioni straordinarie.

Compagnia di buon professionismo: Olga Guriiakova ha la voce e l'aspetto di una Tatiana di riguardo, chissà se il resto le verrà; Giuseppe Sabbatini piega ai propri mezzi monocromi le esigenze del suo personaggio innocente e disperato con sapienza; Ludovic Tézier canta e recita benissimo la parte del protagonista, ma sarà difficile ricordarne qualcosa nel tempo; figurano autorevole la Milcheva e interessanti la Surguladze e Voynarosky. Che Dio, almeno alla Scala, ci mandi non abitudine ma felicità.

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«Onegin» emoziona alla Scala con giovani da applauso
Giancarlo Arnaboldi, La Provincia, 13 January 2006

Turbamento, passione, gelosia, disillusione, rimpianto: tutta la gamma dei sentimenti amorosi è scandagliata da Ciaikovskij nel suo Evgenij Onegin, affidati ora uno ora all'altro dei tre protagonisti dell'opera, stemperati in una partitura che raggiunge punte di esacerbata emotività.

Il Teatro alla Scala, allestendo il capolavoro di Ciaikovskij, ha colpito nel segno. Affidato a una compagnia prevalentemente composta di giovani interpreti, quasi tutti debuttanti sul palcoscenico del teatro milanese, Onegin ha conquistato fin da subito il pubblico che, a fine serata, ha accolto trionfalmente la felice esecuzione.

Il trentenne direttore d'orchesta, Vladimir Jurowski, ha guidato l'orchestra e il coro scaligeri con mano salda e duttile. Furori orchestrali si sono avvicendati a oasi di delicato lirismo (l'aria di Lenskij e quella di Gremii alla fine dell'opera). Tutti i cantanti hanno risposto con bella professionalità e diverse punte di eccellenza. Fra tutti va segnalata la Tatiana di Olga Guriakova, intensa e immedesimata, ottima attrice e affidabile cantante. Languide raffinatezze, alternate a scatti febbrili, ha elargito Giuseppe Sabbatini che trova in Lenskij uno dei suoi ruoli d'elezione avvicinandosi, per molti aspetti, alla scuola esecutiva degli storici interpreti russi del ruolo. Vocalmente smagliante, ma interpretativamente piuttosto generico, è apparso il baritono francese Ludovic Tézier, un Onegin fin troppo monolitico ma ben cantato.

Piacevole l'allestimento firmato dieci anni fa da Grahm Vick per Glyndebourne. Atmosfere vagamente cecoviane, supportate da un minimalismo scenografico fin eccessivo (scene e costumi di Richard Hudson), si intrecciano con un gioco scenico particolarmente curato, soprattutto nel caso del personaggio di Tatiana la quale, con la regia di Vick, diventa la vera protagonista dell'opera. Giancarlo Arnaboldi Evgenij Onegin Milano, Teatro alla Scala,10 gennaio.

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This page was last updated on: January 17, 2006