REVIEW I Puritani, Teatro Regio di Torino, 1996 |
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Questo Bellini color pastello Alessandro Mormile, L'Opera, n. 97, May 1996 Torino - Dopo 23 anni di assenza dalle scene torinesi, I PURITANI sono tornati al Teatro Regio in una edizione, in versione integrale, per molti aspetti memorabile. Suparato lo stadio del commovente coinvolgimento emotivo suscitato dall'ascolto della "prima", vediamo di illustrare i motivi per cui l'esecuzione in questione ha mostrato di avere i crismi dell'eccezionalità. Il discorso va impostato su questioni meramente filologiche, legate al ripristino di una prassi esecutiva di stile antico che abbiamo sebito percepito nel geniale, magico tocco direttoriale della bacchetta di Bruno Campanella, mestro abilissimo nel dar libero sfogo al fluire della melodia belliniana, quasi accarezzandola con accompagnamenti di aristocratica eleganza. In orchestra si odono ghirlande di suoni di estatica, pura sospensione lirica. Basta farsi coinvolgere dall'ispirata filosofia direttoriale di Campanella per comprendere quanto nei Puritani, ad onta della presenza di pagine che annunciano e precorrono gli sviluppi dell'estetica romatica (come non ricordare gli slanci patriottici del celebre duetto fra Riccardo e Giorgio), prevalga la rapinosa, struggente bellezza di un melodioso estatico e sognante, che avvolge le passioni dei personaggi in un manto di duttili combinazioni armoniche astrattamente oniriche e raffinate. Questo strumento belliniano, dipinto da Campanella con soffici colori acquerello, aiuta i cantanti nell'esaltare le oasi di lirismo più ispirate della partitura. Ed ecco che, in questo contesto orchestrale, i cantanti comprendono quanto sia importante sposare una visione interpretativa che, vuoi per scelta dei medesimi, vuoi per naturale predisposizione ad aderirvi, sacrifica l''steriorità vocale in funzione dell'utentica verità stilistica. A tal riguardo merita analizzare con occhio didattico l'interessante prestazione offerta da Giuseppe Sabbatini nei panni di Arturo. Per la seconda volta nella sua carriera dopo l'edizione di Londra del 1992 alle prese con uno dei più impegnativi ruoli tenorili del repertorio ottocentesco, Sabbatini affronta il personaggio con la volontà di recuperare quello stile di canto alato, delicatamente astratto che era proprio del mitico Giovanni Battista Rubini, creatore della parte. Certo il timbro non è baciato dalla natura e talvolta cede ad emissioni nasali, ma nella sua linea di canto il romantico eroismo cavalleresco del personaggio si tramuta in sognante elegia poetica, sublimata da rarefatte emissioni angelicate, in miniaturizzazioni espressive proprie ad un artista musicale e tecnicamente preparato, che conosce i segreti di un fraseggio vocale di estrazione ottocentesca. Raramente capita di ascolatare il recitativo e la dolente romanza che apre il terzo atto con una gamma di colori, accenti e messe di voce così varia e fantasiosa, dove ogni parola acquista nel canto , il suo dovuto spessore espressivo. Gli amanti degli acuti lanciati con argentea, squillante luminosità rimarranno forse un po' delusi ascoltando Sabbatini, ma, ad onor del vero, le puntature statosferiche, tanto attese dal pubblico, seppure non affrontate con impiego di arcaici suoni in falsettone, (che forse oggi lascerebbero delusi gran parte degli ascoltatori) vengono risolte senza alcuna esitazione anche se, come detto, prive del dovuto squillo ed espansione. Il mitico fa sovracuto di "Ella è tremante", viene omesso a favore di un apprezzabile re bemolle, mentre il do diesis di "A te o cara" ed il re di "Vieni fra queste braccia" hanno un rilievo più che onorevole. L'esaltazione dell'amore angelicato, espresso attraverso suoni di liliale purezza; il dominio assoluto del legato tradotto in emissioni di lieve, delicata estasi belcantistica, trovano nella perfezione tecnica di Mariella Devia un'interprete insuperabile della parte di Elvira. Il raccolto ripiegamento nostalgico e malinconico di pagine quali "Oh vieni, vieni al tempio" e "Qui la voce sua soave" arriva addirittura a commuovere per il lunare, idilliaco afflato con cui vengono smorzate a tutte le altezze note di perlacea fattura. Sul piano virtuosistico il suo "Son vergine vezzosa" è variato con interpolazioni fantasiosamente spericolate, stilisticamente pertinenti, che maiimpediscono di cogliere l'innocente, talvolta fragilità del pesonaggio. Anche nelle estremità più alte del pentagramma la Devia si muove con delicata disinvoltura e sfodera sovracuti morbidissimi, ai quali manca forse la sfrontata esuberanza di altre storiche interpreti del ruolo, ma non certo l'assoluta, infallibile precisione di intonazione. Roberto Servile, in forma smagliante, conferma di essere un baritono vocalmente raffinato, adatto a tratteggiare il carattere generoso e cavalleresco del personaggio di Riccardo, sa colorire le frasi belliniane della sua aria di sortita ammantandole di nobile morbidezza, mentre alla cabaletta "bel sogno beato", dai tempi fascinosamente dilatati in orchestra da Campanella, viene restituita l'accorata estatica sospensione amorosa che la caratterizza. Michele Pertusi (Giorgio) non gli è da meno e, nella splendida aria "Cinta di fiori" sfoggia unlegato magistrale e piega il bel velluto della sua voce a soffici emissioni a fior di labbro. Il cast èp completato da Claudia Nicole Bandera, una Enrichetta di lusso, dal bravissimo Enrico Turco (Lord Valton) e Iorio Zennaro (Sir Roberton). L'allestimento, firmato dalla regia di Giorgio Marini, con costumi di Ettora D'Ettorre e le scene di Edoardo Sanchi, si ispira ai famosi bozzetti e figurini di Giorgio De Chirico che tanto fecero discutere quando furono presentai al maggio Musicale Fiorentimno nel lontano 1933. Lo spettacolo è stato poi ripreso a Firenze 7 anni or sono. Oggi a Torino rimane assai poco delle irreali geometrie visive, della solare mediterraneità con cui De Chirico aveva concepito L'Inghilterra di Cromwell. Il regista sembra quasi vergognarsi di mostrare i fondali disegnati dal celebre pittore, li nasconde, ne fa impallidire gli smaglianti colori immergendoli nella triste, nebbiosa oscurità di uno spettacolo di severe monocromia che tenta con esiti non sempre felici, di donare all'opera una borghese dimensione puritana. "L'allestimento di De Chirico spiega Marini rimane quindi un punto di riferimento obbligato, ma è come intrappolato, gli elemti scenici rappresentano tutto ciò che è vincolante, i bozzetti originali saranno racchiusi in grandi cornici ligneee che i protagonisti attraverseranno come se sorpassassero dei limiti in una sorta di fuga impossibile dall'allestimento" Che senso ha allora rifersi a De Chirico se il suo pensiero viene sfalsato, sfruttando solo alcuni frammenti scenici per esperimenti registici nati dalle macerie di uno spettacolo tradito e snaturato nelle sue idealità originarie? Il pubblico della prima ha applaudito con distratta condiscendenza, dando quasi l'impressione e questo è grave di non accorgersi del reale valore dell'esecuzione. |
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