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Falstaff, La Scala, (Milan and Ravenna Festival) March & July 2001 Un disperato che fa la differenza Paolo Isotta, Corriere della Sera, 31 March 2001 In alcune opere di Verdi il tenore non è il protagonista. A volte sono le più avvincenti. Che non lo sia nel Falstaff dipende dalle illustri fonti letterarie, non da un quid scaturito dal solo Verdi, come potrebb' essere nei Vespri siciliani: si cercasse pure tra altre dieci opere, quale tenore possiede l' eleganza, la complessità psicologica, la forza, il fascino virile di Monforte, il baritono? Eppure Fent on, quello del Falstaff, è a sua volta un unicum nella produzione verdiana. Quasi, nel suo pargoleggiare con Nannetta, si tien di fuori dal mondo degli adulti. Ha gl' ideali connotati d' un adolescente. Ma la sua testa è senza età, forse è uno di que i giovani dei quali Shakespeare s' innamorava. Così, Verdi gli affida una delle sue più perfette creazioni; di più, una delle più perfette creazioni dello stesso Boito, il ricercato linguaggio dei libretti del quale può lecitamente spiacere. Il «Sone tto» cantato da Fenton aprendosi il IV atto è una dimostrazione squisita di come la poesia e la musica siano sorelle, lo fossero per comune nascita, lo ridiventino se s' individui il comune momento genetico. Perciò il Sonetto rende Fenton uno dei più importanti personaggi della produzione del Grande. Non appaia stravaganza incominciare un articolo sul Falstaff con quest' osservazione. Non vi fossero ragioni obbiettive, un Maestro fece leggere pochi giorni fa l' indimenticabile pagina di Eugenio Gara ov' è rievocato il debutto falstaffiano di Tito Schipa, 1913. Era colui, come tutti sanno, un genio. Boito gli fece visita in camerino e gli dichiarò d' aver una volta sola inteso accentuare e punteggiare la pagina meglio di quel ch' egli non ve nisse d' intendere da lui: quando ascoltò il Maestro medesimo. Ora, la piccola poesia, nel Falstaff riallestito nel classico allestimento di Ezio Frigerio in un' infelice regia di Giorgio Strehler, è ancora una volta cantata da Juan Diego Florez con una delicatissima punteggiatura, una chiarissima dizione, un timbro luminoso insieme e «raccolto» nelle troppe note di «passaggio». Ma di Tito Schipa parlammo, o forse a Lui pensammo, quando Florez interpretò Elvino nella Sonnambula di due mesi fa. E videntemente habet, il Florez, come tutti noi, sua sidera. E siccome i tenori ormai vengono anche dalla Scala impiegati casualmente, teniamoci Florez attaccato a catena e usiamolo per don Ottavio e Otello e Sigfrido (nel Crepuscolo) e il Tamburmaggio re: suoi colleghi a noi propinati per taluni di questi ruoli, ch' egli rifiuterebbe, non ne hanno maggior titolo. Rovineremo, col nostro egoismo, un angelo, ma soffriremo, per un po' , di meno. Florez è tra l' altro uno dei pochi artisti attuali che sappiano cantare piano senza ricorrere a trucchi. La stessa lode va fatta ad Ambrogio Maestri, il geniale trentunenne che, questa volta osando e trionfando nell' osare, il maestro Muti sceglie a impersonare Falstaff, parte che di solito rappresenta i l coronamento di una carriera. E quanto più lunga, quanto nelle inflessioni più esigente. Per la sottigliezza e le infinite graduazioni nella dizione, perché ogni parola ha da essere pesata e acquisire un accento non interamente ricompreso nel canto stesso. Si parli di distacco, d' ironia sorridente da parte di Verdi, si parli di comicità. Non ci si faccia ingannare dal colore argentino della partitura, da uno stile orchestrale affatto diverso da ciò a che Verdi abitua. Ma vogliamo ricordare, di là dallo spietato realismo, Verdi chi fosse? Credo che da una quercia nodosa e secca quale Verdi era, chiuso in una sua atra disperazione di contadino, che lo differenzia dal borghese, credo dunque che la vecchia quercia generi con Falstaff un uomo di ineguagliabile solitudine e disperazione perché non alleviate da eroismo. Falstaff è disperato come può esserlo un vecchio costretto a vivere d' espedienti e conscio che ogni giorno rappresenta un gradino disceso. È, ancora una volta, un alieno, u n «diverso». Quanto sinistra suona la Fuga finale, quanto scheletrici gl' infiniti modernismi strumentali inventati come per finire in un trattato di orchestrazione che il maestro Muti sottolinea con elegante sprezzatura, non con lo zelo sciocco che altri impiega. Se Ambrogio Maestri ci desse questo Falstaff, ci toglierebbe il piacere di ascoltarlo quando avrà sessant' anni. Per ora, comprendi quanto, essendo egli un vero artista, adori interpretare una parte studiata con tutte le ficelles di tr adizione. La graduazione dinamica, si ripete, è da lui in ampio arco posseduta, così come i requisiti prima elencati. Davvero questa recita, col sensazionale debutto, pare un ideale passaggio di testimone da Juan Pons, che studiò il Falstaff col maes tro Siciliani e che ne penetra tutto il nero, alla garbata, frizzante, musicalissima melancolia di Maestri. Ben canta una Inva Mula Sul fil d' un soffio etesio. Bernadette Manca di Nissa è eccellente Quickly e prende, come deve, a modello la g rande Fedorona (Barbieri, ovviamente). L' altra voce femminile degna di menzione è la signorina Frittoli, Alice. La complessità tecnica, la velocità intesa quale ritmo interno d' una partitura, le sfide strumentali, sono per il maestro Muti un invito al possesso, all' approfondimento, persino all' autodominio. Difficile concepire chi possa, oggi, dirigere il Falstaff così: il solito complimento dell' eccezionale politura strumentale si sposa qui al possesso sintetico della partitura dall' alto. È, la sua, una gabbia ritmica inesorabile donde riflessi argentei emanano, ma non disumana alla Toscanini: anche perché all' affascinante secchezza di suono del Grande egli sa contrapporre accordi e linee leggermente alonati. Alonati quasi oniricamen te, così rivelando con quel lucore il nero della disperazione. Almost Perfect Fulvia De Colle, www.andante.com, August 2001 La Scala and the Ravenna Festival mount a nearly flawless production of that nearly flawless opera, Verdi's Falstaff. Friday 13 July 2001, Teatro Alighieri, Ravenna A production of Teatro alla Scala, Milan for the Teatro Verdi of Busseto and the Ravenna Festival 2001 An Apollonian opera, the testament of an immortal composer on a libretto derived from the Swan of Avon, as performed in the historical Busseto staging of 1913 (whose conductor was Toscanini) and revived by a company which will probably make history: the orchestra and chorus of La Scala conducted by Riccardo Muti. All that could be enough. But there was also an exceptional cast of singers-actors: among them the charismatic baritone Juan Pons in the title-role and Daniela Dessì as Alice Ford (both of them starred in Muti's 1995 recording). Productions of this quality are quite uncommon in an opera-goer's life, something to be remembered. Some bewilderment emerged during the extremely complex concertati where the individual singing lines intertwine, turning the sung text into an exhilarating hubbub - a passage full of refined irony, subtly underlined by Ford's uttering: "se parlaste uno alla volta/ forse allor v'intenderò" ("if you will speak one at a time, then I will understand you"). But a serious flaw was hardly to be found in such an ensemble: Bernadette Manca di Nissa was a Quickly in grand style, a mezzo with clear diction and great humour; Roberto Frontali a sympathetic Ford, especially in the 'cuckold' monologue; Anna Caterina Antonacci a convincing Meg. Also worth mentioning: the witty pair Pistola (Luigi Roni) and Bardolfo (Paolo Barbacini); the comically nasty Dr. Cajus (Ernesto Gavazzi); and, last but not least, the young lovers, delightfully performed by Juan Diego Florez and Inva Mula in a vocally delicate and theatrically appropriate manner (thanks in part to their handsome appearance). Besides that, Florez offered an absolutely "historic" timbre, maximal care for diction and a caressing filato. And there was the orchestra, masterfully underlying words and gestures with a clear-cut articulation almost without comparison - an achievement ranking Maestro Muti and his Milanese ensemble within the top layer of today's international musical scene. A possible source for problems, the generous acoustic of Teatro Alighieri, initially resulted in the overpowering sound of the orchestral tutti, but this was quickly corrected by Muti's fine ear and firm control. The curtain rose showing the Garter Inn as if it were a drawing from an 18th-century book of fairy tales: a hyper-realistic, pompier-style interior, quite a symphony in phoney Elizabethan timber with the singers strolling around as shabby commedia dell'arte players, occasionally doubled by mime-dancers. The wondrous atmosphere, also conveyed by the flamboyant costumes and the eccentric ladies' coiffures, continued throughout the opera, culminating in the final scenes at Windsor Park. Sir John's majestic headgear visually saturated the stage with irresistibly comical effects, yet created some discomfort on behalf of the poor wretch. Naive identification versus Entfremdung: the burden of an entire century in the history of stage direction rested heavily on those horns. Verdi's Falstaff is a paramount exercise in comic style, as finely balanced as one might find in the entire history of opera: even honor and jealousy, causing tragic bloodshed in Otello, are now a knowing jest. The composer's mature dramatic and symphonic skills are ironically revisited as well - as is the hero's rampant individualism, for the singers are all engaged in an ensemble play more difficult than any solo aria. But with this exceptional cast it worked almost perfectly, as acknowledged by the audience with standing ovations and demands for encores at each act's end. |
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Page last updated on: August 29, 2002 |