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August 2004
Photo from Il Messaggero, 14 August 2004

"Devo tutto al Rossini Opera Festival", Corriere Adriatico, 14 August 2004
Intervista: Juan Diego Florez, Il Resto del Carlino, 14 August 2004
Una volta l'avresti potuto ..., Il Messaggero, 14 August 2004
«El canto es una especie de deporte...», ABC Domingo, 15 August 2004
«Lo más importante es la precisión...», El Diario Montañés, 23 August 2004

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"Devo tutto al Rossini Opera Festival"
Laura Guidelli, Corriere Adriatico, 14 August 2004

Juan Diego Florez, il numero uno, e la scommessa del '96

Tanti personaggi a Pesaro per il Rof. Come potete notare nella fotografia in alto. E tutti, o quasi, arrivano per ammirare Juan Diego Florez. E' lui l'etoile del Rof. Anche se lui dice di non sentirsi un divo. Il tenore peruviano, che ha debuttato proprio al Rossini Opera Festival nel 1996 e ora è uno degli artisti più apprezzati e richiesti del panorama lirico internazionale, si confessa con i giornalisti.

Pantalone beige, camicia arancio scuro, sorriso gentile e disponibile sotto i baffi e il pizzetto di Corradino, il personaggio che interpreta in "Matilde di Shabran".

"Appena gli spettacoli saranno terminati, taglierò tutto", assicura Florez e scherza: "Così ho un'aria matura? Più vado avanti e meno voglio averla".

Sono trascorsi otto anni da quella "Matilde di Shabran" che fece salire Florez alla ribalta internazionale.

"Il Corradino del '96 era molto diverso da quello di oggi. Mi sento cresciuto dal punto di vista artistico e interpretativo. Allora ero attento soprattutto al canto. Ora mi sento più sicuro e rilassato, mi muovo con maggiore disinvoltura, insomma cerco anche di essere attore".

Florez si dice molto soddisfatto di questa edizione.

"I quasi 30 minuti di applausi dimostrano che l'allestimento è stato apprezzato. Il cast è davvero eccezionale. Con Annick Massis avevo lavorato in "Le Comte Ory" a Firenze. Il regista Mario Martone è riuscito a darci una giusta libertà di movimento senza lasciare nulla fuori della sua perfetta organizzazione. E soprattutto ha saputo tirare fuori il talento di ogni artista".

Dal '96 Florez è tornato ogni anno al Rof ed ha anticipato che sarà a Pesaro anche per la prossima edizione nel "Barbiere di Siviglia".

"Io devo tutto a Pesaro e al Rof. Furono Gigi Ferrari e Gianfranco Mariotti a volermi. Fu una scommessa su uno sconosciuto che poteva anche non andare bene. A Pesaro mi sento a casa anche perché Rossini è il mio mondo. Il Rof è per me un momento di verifica del mio percorso artistico e mi dà anche una grande carica di energia".

Lei è uno di quegli artisti che gli ammiratori attendono fuori dal teatro per avere un autografo. Se canta in un'opera si fanno i pullman per andare ad ascoltarla.

"Io non mi sento un divo. Penso che il divismo appartenga ad un'altra epoca. E' un'atteggiamento datato, anche se c'è ancora qualche artista che si comporta da etoile".

Tra i fans più accaniti di Juan Diego, i pesaresi

"Però se cammino per strada a luglio non tutti qui mi riconoscono, invece a Lima, la mia città, mi fermano anche se ho gli occhiali scuri e il cappellino. A Lima c'era un solo teatro che è andato in fiamme nel '95. Ora abbiamo fondato un'associazione, "Amici peruviani per l'opera", che realizza una piccola stagione di due opere all'anno. La gente mi conosce grazie alla stampa e alla televisione dove vengono trasmesse le opere da me interpretate. Inoltre ho fatto uno spot contro la droga che ha accresciuto la mia popolarità".

Florez ha impegni per i prossimi cinque anni, sempre con la lirica, naturalmente. "Ermione" e "Rigoletto" sono le due novità in cui Juan Diego si cimenterà per la prima volta.

"Mi hanno fatto proposte di vario genere, anche un musical, ma a me non interessano. Non voglio uscire dalla lirica"


Intervista: Juan Diego Florez
Maria Rita Tonti, Il Resto del Carlino, 14 August 2004

Il tenore Juan Diego Florez è diventato una star della lirica proprio con il debutto a Pesaro in «Matilde di Shabran» nel 1996.

Quest'anno è tornato al Rof per interpretare Corradino in un nuovo allestimento di «Matilde». Non si sente un divo, ma è uno dei pochi cantanti per i quali i melomani si spostano da tutto il mondo e che è atteso da decine di fans per firmare autografi.

«Penso che il divo appartenga ad un'epoca ormai passata. Io non mi sento tale. Quando mi trovo a Pesaro, ad esempio a luglio, posso  racconta il tenore peruviano  ancora girare tranquillamente per la città senza essere riconosciuto ma a Lima è tutto diverso. La gente mi riconosce per strada: magari non mi hanno mai sentito cantare in teatro, però hanno letto di me sui giornali, mi hanno visto in televisione».

Alla conferenza stampa si presenta con un completo di lino molto informale, sembra un giovanotto come tanti, ma quando parla e persino da come sta seduto si può capire che è abituato a stare sul palcoscenico. Per "Matilde si è fatto crescere barba e baffi. «Mi danno  sorride  un po' fastidio e, siccome gli anni passano anche per me, non ci tengo a sembrare più 'vecchio».

Florez in televisione ha fatto uno spot contro la droga. «Mi sentivo di farlo e ho accettato la proposta... Ne ho avute tante, anche quella di partecipare ad un musical a Broadway: certo avrei guadagnato molto ma il mio mondo è la lirica».

Come è cambiato in questi anni? «Sono cambiato molto: prima ero concentrato sulla voce, mi interessava soprattutto cantare bene; ora sono maturato dal punto di vista tecnico ed interpretativo. E' molto importante inoltre il rapporto fra cantante, regista e direttore, ci deve essere una sorta di "comunione" che permette di far emergere il meglio. A me piace anche improvvisare durante le prove e se queste improvvisazioni piacciono, vengono inserite nello spettacolo».

«Matilde» è un'opera in cui Corradino non ha un'aria vera e propria e praticamente non canta negli ultimi 15 minuti. Che cosa pensa di questa scelta di Rossini'? «Penso che l'opera sia costruita molto bene. Il tenore non potrebbe arrivare facilmente, dato che l'opera è molto impegnativa, a cantare un'aria finale. Il tenore David all'epoca aveva inserito un'aria di "Ermione" e anch'io avevo pensato di fare lo stesso, ma si sarebbe sacrificato il duetto con Matilde che è bellissimo».

E il rapporto con Pesaro? «A Pesaro devo tutto, mi sento come a casa mia. Non torno solo per riconoscenza ma perché qui mi trovo bene. Devo molto a Luigi Ferrari e a Gianfranco Mariotti che quando ero uno sconosciuto non hanno avuto paura di scommettere molto su di me».
Ovviamente, il futuro di Florez, almeno per i prossimi cinque anni, è già programmato.

«Ci sono alcuni nuovi ruoli: nel "Don Pasquale" a Londra e in "Elisir d'amore". Poi ci sono le opere di sempre come "Il Barbiere" il prossimo anno a Pesaro e il debutto nel "Rigoletto" nel 2008. Per quanto riguarda le incisioni, dopo "le Comte Ory", farò un disco con arie poco conosciute di Gluck, Verdi, Puccini ("Gianni Schicchi") e un'aria quasi inedita da "La figlia del reggimento". In America inciderò un disco di "hits" di musica latino americana, il primo dedicato alla musica popolare, che uscirà anche in Europa». Incontenibile, davvero


Una volta l'avresti potuto ...
Claudio Salvi, Il Messaggero, 14 August 2004

Una volta l'avresti potuto fermare in una via del centro e intervistare al bar, magari in compagnia della mamma o della sorella che qui a Pesaro sono di casa. Ora Juan Diego Florez , stella del firmamento lirico mondiale, è costretto ad affidarsi alle conferenze stampa, come si usa ormai con le star. Ma il tenore peruviano, interprete di Corradino nell'applauditissima Matilde di Shabran , ovvero nella stessa parte che lo ha portato alla ribalta internazionale proprio al Rossini Opera Festival otto anni fa, non sembra affatto atteggiarsi a divo. «Non mi sento un divo, so che ci sono cantanti che hanno un atteggiamento di questo tipo, io no». Poi qualcuno gli fa notare che ormai è lui a scegliersi i ruoli anche in teatri importanti. «Sì è vero. A volte mi chiedono cosa voglio fare. Se questo è un aspetto del divismo allora sì; ma io cerco sempre di comportarmi come una persona normale. A parte quando sono a Lima, la mia città, dove mi devo camuffare per non essere conosciuto».

Cosa è cambiato in questi anni?

«Era il mio primo lavoro. E' cambiato moltissimo sia sotto l'aspetto tecnico sia a livello interpretativo. Allora pensavo solo a cantare bene e non mi curavo molto di come si doveva stare in scena. Adesso è diverso».

Come si è trovato con la regia di Martone?

«Una regia stupenda. E' la prima volta che ci lavoro e Martone è riuscito comunque a tirar fuori bene il mio personaggio. Ma credo più in generale che in questo allestimento tutto funzioni al meglio: l'orchestra, i cantanti, il direttore».

E' vero che Martone vi ha lasciati liberi di fare quello che ritenevate meglio?

«No, lui aveva delle idee ben precise. Per quanto mi riguarda è vero che in qualche punto ho ritenuto di inserire delle cose: lui ha visto ed ha approvato».

Difficoltà nel personaggio?

«Un ruolo che fa sudare, sia sotto il profilo vocale che drammaturgico. Innanzitutto perché canta dall'inizio alla fine anche se non un'aria vera e propria, poi perché bisogna rendere evidente la metamorfosi del personaggio: dalla crudeltà iniziale all'innamoramento».

La sua presenza al Rof è ormai una costante

«E' un festival al quale non intendo rinunciare, nemmeno per manifestazioni che pagano molto di più. Pesaro è il posto ideale per recuperare le forze, per misurarsi, per capire se sei migliorato o meno, per confrontarsi con gli altri cantanti».

Le hanno mai fatto proposte per altri generi musicali?

«Sì tante volte, persino per un musical a Broadway. Avevano già preparato manifesti e locandine con il mio nome, ma io non ho mai detto che avrei accettato».

E' vero che ha impegni di qui al 2010?

«Sì, ma ci sarà anche Pesaro. Il prossimo anno con il Barbiere di Siviglia e nell'occasione tutta la mia famiglia sarà qui».

Pesaro sempre nei suoi programmi, non sarà solo per riconoscenza?

«No, la riconoscenza la debbo solo a Luigi Ferrari che ha scommesso su uno sconosciuto come ero io allora e anche a Gianfranco Mariotti. Pesaro è come casa mia, non è un segreto. E poi questo a questo festival non si può mancare».


«El canto es una especie de deporte, y el cantante una especie de atleta»
Julio Bravo, ABC Domingo, 15 August 2004

El mundo de la ópera, tan proclive a la «canonización» de sus protagonistas, ha encontrado un nuevo sujeto de adoración: el tenor peruano Juan Diego Flórez, la última estrella aparecida en el firmamento lírico. Al estilo de los grandes divos de antaño, tiene partidarios fidelísimos, que le siguen por toda Europa e incluso por América, que fletan autobuses y que lideran el coro de ¡bravos! que le acompaña inevitablemente en cada una de sus actuaciones. El pasado domingo, Juan Diego Flórez volvió al que se ha convertido en uno de sus refugios: el Festival de Pesaro. Fue una velada especial, porque en ella cantó de nuevo la ópera de Rossini «Matilde di Shabran», el título con el que se dio a conocer en 1996. Aquel año Flórez tenía veintitrés estaba contratado para un pequeño papel, pero una indisposición de Bruce Ford, que debía encarnar al protagonista masculino, permitió que el joven cantante peruano tuviera su oportunidad.

Flórez deslumbró al público del impresionante Palafestival de Pesaro. El resto, como suele decirse, es historia: la Scala de Milán le abrió sus puertas ese mismo año, el Covent Garden un año más tarde. Le seguirían la Ópera de Viena y el Metropolitan de Nueva York, los premios y las grabaciones. El domingo, en Pesaro, Flórez reeditó su éxito de ocho años atrás; más de una hora después de concluida la función, seguía recibiendo las felicitaciones de los aficionados. Aparentemente tímido (él niega que lo sea), no paraba de dar gracias con una mezcla de orgullo y azoramiento. Tras la segunda función, habló con ABC.

¿Cómo ha ido la segunda representación de «Matilde di Shabran»?

Artísticamente muy bien, pero hacía mucho calor, y eso dificulta nuestro trabajo. Se pierden sales minerales, y tenemos poca fuerza. Es difícil cantar, sobre todo si se tiene uno que mover tanto como yo en esta ópera, que tengo que subir, bajar, ir de un lado para otro.

Hay quien ha dicho que su papel en esta obra tiene tanta exigencia física y vocal como un personaje wagneriano.

Aunque no tiene un aria principal, es un personaje que está cantando siempre música muy difícil hasta el final. Es una música muy ardua y fuerte; el personaje siempre está molesto y la tensión del canto es bastante «di forza». Hay también momentos para los legatos y para los pianos. Pero casi siempre es como una ametralladora.

Usted debutó con esta ópera, también aquí en Pesaro, en 1996. En tan sólo ocho años han cambiado mucho las cosas para usted. ¿Ha ido todo muy deprisa?

Ha cambiado todo. En aquel momento yo estaba por descubrir, por mejorar. Los agudos estaban y la técnica estaba, pero todo sujeto a mejoría. Para tener 23 años estaba bien. Ahora, si se comparan las dos interpretaciones, hay muchas diferencias. Ha ido todo muy deprisa, sí, especialmente al comienzo. Enseguida hubo debuts importantes, teatros importantes, en los primeros cuatro años.

Cada año está usted en un peldaño superior artísticamente. ¿Cómo se nota esa responsabilidad?

El peso es mayor cada vez, sí. La gente espera más y hay que estar a la altura. Yo siento mucho esa responsabilidad, especialmente por mi carácter; soy muy autocrítico. Pero me sirve como acicate para superarme.

En una profesión como la suya, tan proclive al halago, no es frecuente ser autocrítico; debe de ser difícil crearse esa especie de burbuja para no caer en la trampa de la adulación.

Depende de cómo sea cada uno. Yo soy autocrítico e incluso algo pesimista a veces, así que puedo compensar ese ambiente de alabanzas y seguir con los pies en la tierra. El entorno familiar y los amigos son también un apoyo fundamental para no perder la perspectiva.

Su repertorio es puramente belcantista: Rossini, Donizetti, Bellini... ¿Se precisa una mayor dedicación que para otro repertorio más «verista»?

Quizá sí. En el bel canto uno debe demostrar que sabe cantar, porque todo se nota, todo se escucha. Hay que pulir todo y la voz ha de salir limpia, el canto bien fraseado. En el verismo no es tan importante que todo sea pulcro y limpio.

Una vez escuché decir a un compañero suyo que si se sabe cantar a Mozart se sabe cantar todo. ¿Está usted de acuerdo?

Es una gran escuela de canto, pero no podemos olvidarnos del estilo. Para cantar a Rossini se necesita algo más o algo menos que para cantar a Mozart, lo mismo que para cantar a Verdi, a Bellini... Hay un estilo establecido de cómo afrontar a cada compositor. Si yo hoy canto, por ejemplo, «La cenerentola», de Rossini, y mañana «La sonnambula», de Bellini, tengo que adecuar mi voz a un cierto estilo, a un cierto «legato», que es diferente en cada uno de los casos. Cada compositor requiere su propio estilo, y uno debe adecuarse a él; siempre, claro, dentro de las posibilidades de la voz, que es lo más importante. Incluso de una ópera bufa de Rossini a una ópera seria hay ya dos maneras de cantar.

Existe la idea de que dramáticamente los papeles belcantistas son muy sosos; viendo interpretaciones como la suya en «Matilde di Shabran» uno se pregunta si la sosería no estará más en los cantantes o en la dirección que en los propios personajes...

Puede ser. No nos olvidemos de que en el bel canto hay óperas vocalmente muy difíciles, y que por eso no se conocen. Que requieren un reparto muy especial para poderlo hacer, y que cuando se llevan a escena es como descubrir un mundo nuevo.

En este tipo de obras se habla mucho de la dificultad para encontrar repartos adecuados. Sin embargo, hoy en día la técnica ha evolucionado mucho y probablemente se cante mejor, en líneas generales, que hace doscientos años.

Sí es cierto que la técnica ha evolucionado mucho. Hay más cuidado en todo lo que significa respetar la música, lo que está escrito, en no hacer cortes. En la época de Rossini, la gente se dedicaba al canto completamente, con una extraordinaria devoción. Acababa de terminar la etapa de los castrados, que por las crónicas que tenemos eran cantantes increíbles, con una respiración asombrosa, que se inventaron las florituras, las coloraturas, las acrobacias vocales. Rossini inauguró una nueva época, en la que sustituyó esa voz increíble del castrado con el tenor y la mezzosoprano, y por eso escribe partes maravillosas para estas dos voces. Y encontró tenores imponentes como, por ejemplo, Manuel García. Rossini escribía para estos cantantes en particular, que eran excepciones dentro de su época y tenían dotes increíbles.

¿Hay algún papel con el que no se haya atrevido todavía?

Yo creo que me he atrevido bastante, incluso demasiado. Todo lo que yo canto es, en cuestiones técnicas, muy complicado. Lo que tengo que pensar ahora es precisamente en atreverme un poco menos. Pero no es una cuestión de atrevimiento, sino de ir incorporando papeles según llega el momento adecuado vocal y artísticamente. Hace poco he incorporado a mi repertorio «I puritani». Pronto cantaré «L'elisir d'amore». Con el tiempo iré cantando papeles que tienen más de tenor lírico que de ligero, que es lo que yo soy: papeles más «krausianos», más heroicos, lo que no significa que sean más complicados.

Hablando de Kraus, supongo que sería un ejemplo para usted.

Me siento muy cercano a él. Algunas veces se han referido a mí como el nuevo Pavarotti, pero yo me identifico más con la voz de Kraus, creo que me parezco más. De él como intérprete admiro la forma de cantar, el legato, la aristocracia de la voz, la respiración... Tantas cosas... Desgraciadamente, no tuve la oportunidad de conocerle, únicamente hablé con él por teléfono.

Parece que hay ahora un crecimiento de voces iberoamericanas, y abundan especialmente los tenores líricos y ligeros como usted. ¿A qué cree que es debido?

Siempre ha habido grandes voces en Iberoamérica. Sin salir de Perú, tenemos tenores como Alejandro Granda, que cantó mucho en la Scala; luego, Luis Alva, Ernesto Palacio... Es posible que el hecho de que haya esta profusión de tenores en Iberoamérica tenga una explicación. En esos países el modo de hablar es bastante agudo; aparte de eso, nuestro repertorio es muy cantable, y a menudo se interpreta «a la tenor»; de ahí a las romanzas de zarzuela o a las arias de ópera hay a veces muy poco recorrido. Si a ello sumamos también la escasez de voces tenoriles en Europa, se siente más la presencia de los cantantes latinoamericanos.

¿Ha servido su éxito para impulsar la ópera en su país?

Yo canto una vez al año en mi país; este año hemos hecho «La hija del Regimiento» y «Capuletos y Montescos». Pero la tradición operística allí no es la misma que en Europa, y ojalá mi éxito sirva para avivar la vida musical.

Personalmente da la sensación de ser una persona muy tímida, que se transforma en el escenario.

No me considero una persona tímida, pero en el escenario sí que encuentro a menudo energías que parece que en la vida real no tengo.

A propósito de energía... En muchas producciones operísticas, y la que está representando en Pesaro es un ejemplo, hay un gran desgaste físico que, en principio, parece reñido con la calma que requiere la respiración del cantante.

Hay momentos en que puede llegar a faltar el aire, sí. Pero eso prueba que el canto es una especie de deporte, y el cantante una especie de atleta. Hay que estar muy preparado físicamente. Kraus decía que hay que ejercitar lasobre todo las piernas, porque estamos mucho tiempo de pie. Hay que estar en un estado óptimo para cantar... Sobre todo para cantar a Rossini.

¿Usted hace ejercicio normalmente, practica algún deporte?

Menos del que debiera, la verdad. Pero siempre tengo la intención de empezar a hacerlo.

¿Ha tenido usted muchos problemas con los directores de escena? ¿Le han pedido cosas muy raras?

No, la verdad es que muy pocas veces, pero siempre se resuelve hablando. Por mis últimas experiencias, la voz es lo principal y así lo entienden los directores de escena, que están pendientes de la problemática vocal. También he de decir que cuando era más joven podía decir menos cosas y protestar menos... Tenía que estar calladito. Pero cuando uno tiene cierta voz, digamos, ya puede decir lo que no le gusta y le hacen más caso.

Lluís Pasqual, con quien usted trabajó el pasado año en Pesaro, dice que el director de escena debe ser un ayudante del compositor.

Lluís es un director muy sensible a las necesidades del cantante, sabe que no es un actor de prosa, y que la energía que se despliega en el escenario debe tenerlo en cuenta. El intérprete debe preocuparse de cantar. Hablar es más fácil. Puedes hacerlo en cualquier postura. Cantar, no.

De usted se destaca la naturalidad con la que canta. ¿Es algo buscado?

Sí, pero para lograr esa naturalidad hay que haber solucionado antes los aspectos técnicos. Que el aire pase libre por la garganta, y entonces parece que uno está haciendo algo natural.

¿Eso se consigue sólo con estudio, o es algo también de naturaleza?

Hay algo de naturaleza en ello, pero también de estudio. Y más que de estudio, porque yo no soy una persona que pase muchas horas estudiando, es una cuestión de observación personal. Escucharse es fundamental. Yo me grabo regularmente e intento aprender para mejorar.

A usted le sigue un grupo de aficionados fieles que incluso fleta autobuses para oírle cantar en toda Europa. ¿Cómo se recibe esto?

Es muy bonito y gratificante ver la pasión con que se reúnen para viajar juntos a todas partes, y que incluso son capaces de cruzar el Atlántico para venir a América. Es muy halagador.


«Lo más importante es la precisión y por ello uno debe conocer sus limitaciones»
Gillermo Balbona, El Diario Montañés, 23 August 2004

El joven tenor peruano Juan Diego Flórez, una de las voces más elogiadas de la ópera, al que algunos señalan como sucesor de Pavarotti, ofrece mañana un recital en Santander

Se define «autocrítico, perfeccionista» y huye de todo aquello que rodea en la actualidad a un cantante de ópera: las «innecesarias» exigencias o compromisos de la promoción, o esa fama que crece mediante otros ámbitos ajenos al propio «escenario teatral y natural de la ópera», por el que tiene una querencia y muestra un sentido reverencial. Confiesa tener «respeto» por su voz y, como tal, es consciente de que «las limitaciones deben estar presentes» a la hora de dar determinados pasos que no conduzcan nunca a un repertorio forzado o falso. El tenor peruano Juan Diego Flórez, pese a su juventud (31 años) ha provocado en estos últimos años una revolución entre quienes ya le consideran el sucesor de Pavarotti.

Elevado al estrellato tras la grabación de dos auténticos superventas, las cualidades de Flórez pasan por una técnica muy depurada, que levanta pasiones cuando su voz atraviesa la música de sus amados Rossini, Bellini o Donizetti. Canciones y arias de estos tres compositores, entre otros, así como temas típicos de su país, no faltarán en su recital que ofrecerá en el Festival Internacional santanderino mañana martes.

Admirador de Alfredo Kraus, -«de él estudio hasta con las grabaciones piratas de sus interpretaciones»- el cantante peruano añade que del tenor canario «aprendo siempre su fraseo, su elegancia en escena, su canto aristocrático. Fue un maestro de técnica inigualable». Frente a esos «dioses» como gusta decir de Kraus o Pavarotti, los pasos humanos de Flórez son tan prudentes como diáfanos: «Conocer tus limitaciones es muy importante», asegura el tenor quien mantiene que «lo más importante hoy en día sobre un escenario es la precisión musical; hay que conocerlo todo -destaca- hasta el último detalle».

Los 'santuarios' de ópera del mundo, la Scala de Milán, el Covent Garden en Londres; el Metropolitan House de Nueva York, París y Viena, se han rendido al peruano considerado uno de los tenores más elogiados por la crítica. De manera unánime se ha destacado su frescura y su virtuosismo vocal, términos con los que define su versátil voz, para interpretar las arias más difíciles de su preferido Rossini.

Un cantante, reflexiona, «tiene que tener voz por supuesto, pero hay más, la presencia y ese algo que puede llegar incluso a prescindir de la voz: el arte, la importancia de la musicalidad, hoy en día la precisión musical es lo más trascendente».

El tenor dice «buscar la perfección tanto en la interpretación como en la canción», y con su voz, que «se abre y se ilumina», afrontará un recital que, a su juicio, es mucho más difícil que cantar en una ópera. «En el recital uno pasa de un estilo a otro, pero no sólo por eso sino por el aspecto técnico que supone la variedad, de modo que cada canción se convierte en una prueba».

'Desfachatez'

Debutó en 1996, cuando reemplazó en el Festival Rossini de Pésaro en Italia al tenor Bruce Ford, quien se retiró por enfermedad dos semanas antes del estreno de 'Matilde de Shabran', lo que ahora Flórez al echar la mirada hacia atrás califica de «acto de atrevimiento, casi una desfachatez», aunque también le sirve «para saber en qué consiste la evolución. Yo en aquel entonces tenía 23 años y ahora creo que todo ha mejorado, tanto en el aspecto interpretativo como en el de actuación musical y en el de la presencia».

El tenor, desde su residencia de Bérgamo (Italia), en una entrevista concedida a EL DIARIO MONTAÑES, analizó su vínculo cotidiano con el posible repertorio y las exigencias. «Sé qué óperas van más con mi voz y cuáles no. Hay que conocer muy bien las limitaciones de cada uno y saber que los errores se pagan antes o después. No sería nada bueno ni inteligente cambiar». El cantante en su reflexión comenta: «respeto lo que puede hacer mi voz. Estoy feliz con mi repertorio porque en realidad el que manejo es el que me gusta oír, es perfecto en este sentido, y aunque uno encontrara interés en poder cantar mucho más, la trayectoria elegida me hace pensar que estoy trabajando bien y que no he perdido la flexibilidad. Lo importante es mantener durante el mayor tiempo posible las obras que le han hecho importante y que además son las que el público quiere oirte cantar porque lo haces bien», insiste.

Con la perfección siempre como meta, Flórez confiesa querer siempre superarse. «Nunca estoy plenamente contento. No soy de los que quieren escuchar sólo lo bueno. Porque además sé cuándo lo hago mal. Saber eso y no estar nunca contento ayuda a seguir adelante, en busca de la excelencia».

Sobre las limitaciones y la posible imposición de un repertorio desde fuera, el tenor asume que «uno no puede ser bueno en todo. Hay voces de un color determinado y otras de otro. El hecho de que crezca uno en repertorio no depende de los teatros o de la prensa crítica. Creo que cuando voy a cantar me piden lo que la gente quiere escuchar. Las expectativas mayores deben estar dentro de ese terreno donde se mueve mi repertorio. Pero no hay presión. Es el artista el que ofrece esa respuesta desde la escena, no depende de nadie más».

No obstante, Flórez admite que «en ocasiones los cantantes creen que es mejor lo que está más elevado, más hinchado, lo que parece más fuerte. Esto se asemeja al boxeo donde existe esa creencia de que el combate del peso ligero es menor o desmerece frente al de peso pesado. Hay muchas equivocaciones al respecto. Y sobre los escenarios se revelan ejemplos contrarios cada día».

A propósito del protagonismo de los directores de escena y las polémicas nada inusuales con los cantantes, Juan Diego Flórez asegura que «mis experiencias han sido felices». A su juicio, tales situaciones «son parte del teatro, y hoy en día el que no apuesta por una cosa rara en escena no puede considerarse moderno».

Plenitud vocal

Su debut operístico en el Teatro Real será el próximo año, de la mano de Rossini, por supuesto, con 'El barbero de Sevilla'. El tenor que se recrea en la «plenitud vocal que da la juventud, porque luego con los años algunas de las cosas que ahora canto no las podré afrontar», ha reiterado en ocasiones que un cantante de ópera «no puede convertirse en un fenómeno mediático». Reconoce que su último contrato discográfico «me ha acercado a la fama», pero insiste en que «esto no es ni el mundo del rock ni tiene nada que ver con la llamada de una televisión en la que se empeñan en que cante algo que no me corresponde». Juan Diego Flórez subraya que «lo importante para mí siempre ha sido el teatro de ópera, no llenar los estadios. Lo importante es representar una ópera teatralmente, el maquillaje, la actuación...». Este mismo año, Flórez se presentó en el Auditorio Nacional y su presencia en España tras citas recientes como la de Las Palmas, proseguirá por escenarios del norte, San Sebastián y Pamplona, en septiembre, y ya en Oviedo, en octubre. Acompañado al piano por Vicenzo Scalera, Flórez (Lima, 1973), su presentación en la sala Argenta ha despertado una gran expectación. Curiosamente, a Flórez la pasión operística le llegó «tarde y poco a poco», hasta su debut inesperado.

En su opinión, «la ópera sigue avanzando, continúa su camino, muy favorecida por el lenguaje de las comunicaciones que estamos viviendo. Pero dentro de este avance, la ópera es y sigue siendo un arte de pocos, que requiere una sensibilidad especial. Y aunque es verdad que la gente joven se incorpora muy despacio a ella, la presencia de gente joven en el escenario también es un incentivo para cambiar eso». En este sentido, aseguró haber visto «a gente muy joven que fue a la ópera, se identificó conmigo y ahora siguen siendo aficionados».

Galardonado por la crítica con el Premio Abbiati, entre sus proyectos caben, desde la grabación de un disco con canciones populares de Latinoamérica, a una agenda que abarca citas en Viena, París, Roma, San Francisco, Salzburgo, Boloña, Bruselas y un listado interminable.


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